venerdì 17 luglio 2015

32. Le Tombe dei Vichinghi

Quasi un millennio dopo l’ultima eco delle grandi scorrerie dei temibili guerrieri vichinghi, molte delle loro agili e rapidissime navi, i leggendari dragar, giacciono ancora lungo le coste del Kattegat e del Mar Baltico. Silenti, coperte da cuscini di muschi e licheni, pietrificate, come se un terribile sortilegio evocato in qualche antica saga si fosse abbattuto sulle loro snelle fiancate. Spesso sono immerse nel verde dei pascoli, in qualche caso nelle foreste, come sull’isola di Gotland, dove i grandi pini offrono un po’ d’ombra alla leggendaria tomba dell’eroe Tjelvar. Questi immani vascelli non furono costruiti per solcare le onde, ma per custodire le spoglie di sovrani e guerrieri, ricordando alle generazioni future i capostipiti di stirpi dedite alla pesca, al commercio e alla guerra, ma sopra ogni altra cosa formidabili navigatori. La gente le chiama skibssætninger, oppure skeppssättningar, a seconda se ci si trova in Danimarca o in Svezia; nella nostra lingua sono dette navi di pietra e, sebbene tale appellativo sembri paradossale, in realtà è quanto mai appropriato. Singolari testimonianze della cultura megalitica, le navi di pietra furono un metodo di inumazione peculiare della civiltà germanica-scandinava, praticato in particolar modo tra la media Età del Bronzo, attorno al 1000 a.C., e il volgere dell’epoca vichinga, che gli storici fanno coincidere con la fine dell’XI secolo e la conquista normanna dell’Inghilterra.
I Vichinghi, come d’altronde gran parte dei popoli antichi, credevano nella vita dopo la morte e ritenevano di poter portare con sé i propri beni nell’aldilà. I guerrieri venivano inumati assieme alle loro armi, le donne con oggetti preziosi; spesso i membri delle famiglie reali e i più facoltosi si facevano seppellire all’interno di una nave, di solito vera, più di rado un vascello appositamente costruito, dove venivano stipati beni preziosi, mobilia, suppellettili, a volte cavalli, carri e perfino schiavi uccisi durante i solenni funerali affinché continuassero a servire i loro padroni. Il drakkar veniva poi coperto da un tumulo di terra e pietre; in certi casi la nave veniva data alle fiamme, prima di essere occultata. Fortunatamente ciò non accadeva spesso, perché altrimenti oggi non potremmo ammirare le splendide navi vichinghe conservate nel museo archeologico di Roskilde, in Danimarca, e nel forse più famoso Vikingshiphuset, il celebre museo di Oslo. Qui, in una bella struttura architettonica costruita tra il 1932 e il 1957, sono esposte al pubblico tre imbarcazioni risalenti al Nono secolo e rinvenute in tre differenti località norvegesi. Questi superbi capolavori di arte navale vennero scoperti sul finire dell’Ottocento all’interno di altrettanti tumuli funerari, con il fasciame eccezionalmente conservato grazie all’argilla azzurra con cui erano state erette le tre collinette artificiali e alla conseguente assenza di ossigeno. In origine i tre drakkar contenevano i corpi di sovrani e altri personaggi di alto rango, accompagnati da ricchi corredi, esposti in un’ala dell’edificio.
L’attenzione dei visitatori è giustamente polarizzata dalla sagoma slanciata della nave di Oseberg, la meglio conservata delle tre: interamente costruita in legno di quercia e verosimilmente utilizzata come tomba della regina Åsa, è lunga 21 metri e mezzo e larga 5. Pressoché le stesse dimensioni della nave di pietra di Tjelvar, ma certo inferiori a quelle dell’enorme nave di Ale, nella Svezia meridionale, i cui monoliti allineati coprono una distanza di 67 metri da prua a poppa. Dimensioni monumentali vantano anche la nave di Askeberga, sempre in Svezia, lunga 55 metri e formata da macigni pesanti fino a 20 tonnellate, quella scoperta a sud del villaggio danese di Bække, lunga 45 metri, e la spettacolare doppia nave di Anund, ancora in Svezia, la cui duplice sagoma complessivamente raggiunge una lunghezza totale di oltre 100 metri per 23 di larghezza. Per quanto imponenti, le navi di pietra sono solo un aspetto della singolare pratica funeraria: anziché sacrificare un’autentica imbarcazione, se ne costruiva un simulacro, a volte di dimensioni gigantesche, accostando le une alle altre enormi lastre di pietra, in modo da disegnare sul terreno la forma di uno scafo. Spesso i monoliti posti a prua e a poppa svettavano sugli altri e in certi casi un sottile menhir era posto al centro del recinto, in modo da rappresentare l’albero maestro. All’interno del perimetro veniva poi scavata una fossa atta ad accogliere la salma del defunto e il suo corredo funerario; in certi casi, l’interno della “nave” veniva infine riempito di sassi più piccoli, in modo da formare una specie di ponte di coperta. Gli archeologi pensano che i Vichinghi e i loro antenati scandinavi avessero adottato questo particolare tipo di sepoltura, e più in generale l’uso dei drakkar come ultima dimora dei potenti, perché ritenevano fondamentale che i defunti disponessero di una nave per il loro viaggio verso l’oltretomba. Di certo, questi affascinanti “navigli che non possono navigare” ci parlano del rapporto ancestrale che le antiche popolazioni scandinave, tra cui i leggendari Vichinghi, ebbero sempre con il drakkar, emblema di potenza e libertà di movimento, simbolo di appartenenza tribale e di prestigio personale. Le navi di pietra, sparse lungo le coste scandinave del Baltico (ma ne esistono alcuni esemplari anche sulla sponda tedesca) spesso in contesti paesaggistici assai suggestivi, costituiscono la più singolare testimonianza di un rapporto strettissimo tra l’uomo e la sua imbarcazione, trasformata in un monumento capace di sfidare il tempo e di preservare in eterno l’anima del defunto in essa racchiuso.









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